Massimiliano Allegri, il Re dell’Anticalcio

Se il calcio fosse un film, Massimiliano Allegri sarebbe il regista che trasforma un kolossal hollywoodiano in un documentario sulla vita di un impiegato delle poste. Con il suo ghigno da furbetto livornese, Max ha elevato la svalutazione dei giocatori a forma d’arte, un capolavoro di pragmatismo che fa sembrare il catenaccio di Helenio Herrera un inno al tiki-taka. Questo è il mondo di Allegri, dove i campioni diventano pedoni, i fenomeni si smarriscono in un labirinto di mediocrità e i tifosi si chiedono perché abbiano speso soldi per l’abbonamento. 

Gli esordi: Sassuolo, Cagliari e l’ode al “meno è meglio” 

Allegri inizia la sua carriera come un condottiero di provincia, con l’entusiasmo di chi sa che il destino gli riserverà gloria, o almeno un contratto blindato. Al Sassuolo, in Serie C1, compie un miracolo: porta i neroverdi in Serie B con una squadra che sembra assemblata pescando a caso da un’urna di dilettanti. È il primo segnale del suo genio: vincere con il minimo sforzo, come un ragioniere che chiude il bilancio in pareggio senza mai alzare lo sguardo dal calcolatore. 

Poi arriva il Cagliari, dove Max forgia il suo credo calcistico: il calcio non è arte, è un mutuo da pagare. Con un 4-4-2 che sembra inciso su una tavoletta sumera, trasforma i sardi in una squadra che strappa punti alle big con la grazia di un trattore in un campo di margherite. Alessandro Matri segna, sì, ma più per disperazione che per ispirazione, come un naufrago che trova una noce di cocco dopo giorni di digiuno. Qui emerge il primo assioma della filosofia allegrista: il talento è un optional, la fatica è obbligatoria. 

Milan: lo Scudetto e l’arte di vincere annoiando 

Nel 2010, Allegri approda al Milan, accolto con l’entusiasmo di chi trova un avviso di sfratto nella buca delle lettere. La squadra è un mix di vecchie glorie (Nesta, Seedorf) e fenomeni a tempo pieno (Ibrahimovic, Thiago Silva). Max, con la calma di un monaco tibetano che ha già visto tutto, vince lo Scudetto al primo colpo. Miracolo? Macché, è solo il suo superpotere: far sembrare una squadra di stelle un gruppo di onesti mestieranti. Il gioco? Un’ode al nulla, un intreccio di lanci lunghi, cross di Abate e un mantra che riecheggia in ogni allenamento: “Gestiamo, ragazzi, gestiamo!” Tradotto: non rischiate, non create, non vivete. 

Ma la magia svanisce presto. Quando i campioni lasciano Milano e il budget si restringe, Allegri non si reinventa, no. Si arrocca, come un generale che difende un forte con tre frecce e un arco rotto. El Shaarawy, un ragazzo che potrebbe illuminare San Siro con un dribbling, sotto Max diventa un’ala spaesata, costretta a rincorrere terzini come un cane da tartufi. La svalutazione è servita: prendi un diamante, mettilo in una scatola di cartone e vendilo al mercatino per due euro. 

Juventus, atto primo: il trionfo del “corto muso” 

Nel 2014, Allegri arriva alla Juventus, accolto dai tifosi come un virus in una sala operatoria. Dopo il calcio elettrico di Conte, Max è l’equivalente di una tisana alla camomilla: calmante, ma soporifera. Eppure, il livornese zittisce tutti. Cinque Scudetti, quattro Coppe Italia, due finali di Champions. Un palmarès da far invidia a chiunque, se non fosse che il suo calcio è così noioso da far rimpiangere le repliche di “Un posto al Sole”. 

Ed è qui che la svalutazione diventa leggenda. Paul Pogba, un unicorno che sotto Conte galoppava libero, con Allegri diventa un mulo da soma, costretto a correre in cerchio in un centrocampo che sembra progettato da un geometra ubriaco. Dybala? Un potenziale Messi ridotto a fare il trequartista perplesso, costretto a inseguire avversari mentre Max, dalla panchina, gli urla “torna!” con la passione di un vigile urbano. Morata segna, ma sembra sempre sul punto di scusarsi per aver provato un colpo di tacco. E poi c’è Cancelo: un terzino che oggi incanta il mondo, ma che con Allegri era un errore di sistema, un giocatore troppo “creativo” per il rigore tattico del livornese. Max lo guarda, lo prova, lo mette in panchina e poi lo saluta con un “arrivederci e grazie”. Risultato? Cancelo diventa una star altrove, mentre la Juve si morde le mani. È il tocco di Re Mida al contrario: tutto ciò che Allegri sfiora si trasforma in piombo. 

Juventus, atto secondo: il ritorno del nulla

Dopo una pausa sabbatica in cui, si dice, abbia studiato il calcio moderno (spoiler: forse ha guardato “Holly e Benji” pensando fosse un manuale), Allegri torna alla Juventus nel 2021. La missione? Rialzare una squadra in crisi. Il risultato? Un disastro cosmico, mascherato da “progetto a lungo termine”. La Juve di Max 2.0 è un inno al vuoto esistenziale: un calcio senza idee, senza identità, senza un briciolo di speranza. Vlahovic, pagato come un bomber di razza, sembra un centravanti di Serie B, costretto a inseguire palloni vaganti come un gatto che corre dietro a un laser. Chiesa, un talento che potrebbe spaccare le partite, diventa un’ala confusa, intrappolata in un sistema che premia i mediani di fatica e punisce i sognatori. 

E poi c’è McKennie, il simbolo perfetto del metodo Allegri. Wes, che con Pirlo e Sarri aveva mostrato lampi di qualità, sotto Max diventa l’equivalente calcistico di un tuttofare da discount: corre tanto, crea poco, esiste per occupare spazio. La svalutazione è ormai un sistema scientifico: prendi un giocatore, mettilo in un contesto che ne esalta i limiti e poi scrolla le spalle quando qualcuno ti chiede perché non rende. 

Il metodo Allegri: pigrizia mascherata da pragmatismo 

In difesa di Max, va detto che i trofei li ha portati a casa. Gli Scudetti, le Coppe, le finali di Champions non si vincono tirando a sorte. Ma a che prezzo? Il suo calcio è un inno alla sopravvivenza, un’ode alla mediocrità travestita da strategia. Il suo “corto muso” – vincere di misura, senza strafare – è diventato un meme, ma anche una condanna. Allegri non allena squadre, allena risultati. E se per ottenerli deve spegnere il talento, anestetizzare la creatività o trasformare un campione in un gregario, pazienza. 

I tifosi, stremati da anni di sbadigli, si chiedono: è davvero questo il calcio che vogliamo? Un’eterna partita a scacchi dove l’obiettivo è non perdere, mai vincere con stile? Mentre Klopp, Guardiola e persino De Zerbi fanno sognare, Max resta fermo al suo 4-4-2, come un nonno che si ostina a usare il fax in un mondo di smartphone. 

L’eredità di un antieroe

Massimiliano Allegri è un paradosso vivente: un allenatore che vince, ma deprime; che sopravvive, ma non evolve; che gestisce, ma non valorizza. La sua carriera è una commedia nera. Ha preso squadre di campioni e le ha rese ordinarie, ha preso talenti e li ha trasformati in rimpianti da fantacalcio. Eppure, in un mondo ossessionato dallo spettacolo, Max è un dinosauro glorioso, un eroe del pragmatismo che combatte con un’arma sola: il risultato. 

Ma la domanda finale è inevitabile: caro Max, era proprio necessario trasformare ogni giocatore in una versione sbiadita di sé stesso? O forse il tuo vero talento è farci credere che il calcio sia solo una questione di “gestire”? Mentre il mondo corre, Allegri cammina, con quel sorriso da chi sa che, in fondo, un pareggio vale quanto una vittoria. 

Parola finale: se cercate un allenatore che vi faccia sognare, cambiate canale. Se volete uno che vi porti a casa un punticino con la grazia di un carro armato, Max è il vostro uomo. Ma non stupitevi se i vostri campioni finiscono al banco dei pegni.

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