Sinner, il quasi-austriaco che ha asfaltato Alcaraz e l’erba di Wimbledon

Jannik Sinner, il nostro eroe con la faccia da impiegato di banca di Bolzano e un dritto che sembra un missile balistico, ha deciso di prendersi Wimbledon. Ha letteralmente disintegrato Carlos Alcaraz, il torero di Murcia che pensava di poter trasformare l’erba sacra in una plaza de toros, con un 4-6, 6-4, 6-4, 6-4 che è un capolavoro di precisione sudtirolese. Perché, parliamoci chiaro, Sinner sarà pure italiano, ma con quel cognome da birreria tirolese e l’aplomb di chi ordina speck e crauti senza battere ciglio, sembra più vicino a un après-ski a Kitzbühel che a un aperitivo a Milano. E invece, sorpresa: è nostro, e ha deciso di ricordarcelo facendo a fettine il fenomeno spagnolo e i sogni di gloria di chi già lo vedeva con la terza coppa in mano, pronto a ballare flamenco sul Centre Court.

Questa partita non è stata un match, ma una lezione di stile altoatesino: freddezza da ghiacciaio, efficienza da orologio svizzero e un totale disinteresse per le smorfie da divo di Alcaraz. Il ragazzo di Murcia, ha provato a fare il suo solito spettacolo nel primo set, vinto 6-4. Smorzate che sembravano disegnate con il righello, corse da centometrista e quel ghigno da “guardate quanto sono ganzo” che farebbe invidia a un influencer su Instagram. Ma Sinner, non è tipo da lasciarsi impressionare. Ha perso il primo set con la calma di chi sa che il mondo non finisce per un 4-6, ha guardato Alcaraz come un professore guarda uno studente che ha fatto il compitino sbagliato e ha detto: “Ok, Carlitos, ora si gioca sul serio”.

Dal secondo set in poi, il nostro Jannik ha tirato fuori l’artiglieria pesante. Dritti che attraversavano il campo come proiettili traccianti, servizi che sembravano sparati da una catapulta medievale e una solidità mentale che farebbe impallidire un monaco zen. Alcaraz, che di solito trasforma ogni punto in un one-man-show, si è trovato a inseguire come un turista spagnolo perso sulle Dolomiti, senza mappa e con le infradito. Ha provato a rispondere con le sue palle corte, i suoi slice da prestigiatore, le sue urla da torero che incita la folla. Ma niente da fare: Sinner era in modalità “macchina da guerra alpina”. Ogni colpo un calcolo, ogni scambio una lezione di geometria. E mentre Carlitos si dimenava, sudava e cercava di strappare applausi al pubblico britannico (che, diciamolo, applaude pure quando piove), Jannik chiudeva i set con la freddezza di chi timbra il cartellino dopo una giornata di lavoro ben fatta.

E qui sta il bello. Sinner non ha bisogno di fare il fenomeno. Non si batte il petto, non si arrampica sulle tribune, non fa il gesto dell’orecchio come Alcaraz, che sembra sempre a un passo dal lanciare il cappello al pubblico come un cantante di flamenco. No, Jannik è l’anti-spettacolo: vince, ringrazia, sorride come se gli avessero appena detto che c’è coda in autostrada e se ne va. È il tipo che, dopo aver conquistato Wimbledon, probabilmente torna in hotel, ordina una tisana e si mette a studiare il tabellone dello US Open. “Grande Slam? Sì, carino, ma ora vediamo il prossimo”. E mentre i giornali spagnoli piangono fiumi di sangria titolando “Alcaraz, adiós al trono” (sì, l’hanno scritto davvero), lui, il nostro quasi-austriaco, stringe la coppa con la delicatezza di chi maneggia un trofeo di cristallo e non vuole romperlo prima di arrivare a casa.

Parliamo di questa italianità a metà, perché è impossibile non ironizzarci sopra. Sinner è nato a San Candido, a un passo dal confine con l’Austria, dove l’aria profuma di strudel e le montagne sembrano uscite da un dépliant di Heidi. È italiano, certo, ma con quel nome e quella calma glaciale sembra il cugino di un campione di sci di Innsbruck. E invece no, è nostro, e ce lo teniamo stretto. Ha preso il tennis italiano, che fino a ieri era sinonimo di terra rossa e urla da circolo di periferia, e l’ha portato sull’erba di Wimbledon, un posto dove gli italiani di solito vanno solo per fare i turisti e lamentarsi del tempo. Prima di lui, solo Matteo Berrettini aveva osato sognare in grande, ma era finito come un gladiatore romano contro un Djokovic in versione imperatore. Sinner, invece, ha detto: “Scusate, faccio io”. E l’ha fatto, con una partita che è un inno alla noia vincente: niente drammi, niente scenate, solo tennis.

E Alcaraz? Povero Carlitos, vittima del suo stesso copione. Ha provato a fare il fenomeno, a gasare il pubblico, a tirare fuori quei colpi che sembrano usciti da un videogame. Ma stavolta il joystick non funzionava. In conferenza stampa, con quel sorriso da bravo ragazzo che nasconde una voglia matta di spaccare tutto, ha detto: “Jannik è stato troppo forte. Complimenti, ci rivedremo”. Traduzione: “Tornerò, e ti farò vedere io”. Buona fortuna. Perché Sinner non è solo un tennista, è una macchina. La sconfitta al Roland Garros contro Alcaraz? Analizzata, digerita, trasformata in carburante. E mentre Carlitos sogna la rivincita, Jannik è già al lavoro, probabilmente con un cronometro in mano e un’agenda dove segna “vincere tutto” come se fosse la lista della spesa.

Questa vittoria è uno schiaffo morale a chi pensava che Sinner non potesse dominare sull’erba. È un monito: non sottovalutate il ragazzo che sembra uscito da un corso di contabilità avanzata. Non ha il carisma da rockstar di Alcaraz, non fa le smorfie di Djokovic, non ha l’eleganza di Federer. Ma ha qualcosa di più letale: la costanza di un orologio tirolese e la cattiveria di chi sa che, per vincere, non serve urlare, ma colpire. Sinner sta riscrivendo la storia. È il primo italiano a vincere Wimbledon, il primo a farci credere che, sì, anche noi possiamo essere i migliori su un prato che non sia quello di un picnic.

E ora, mentre Alcaraz torna a Murcia a leccarsi le ferite (e magari a ballare un po’ per consolarsi), Jannik si gode il suo momento. Con quella coppa in mano, probabilmente sta già pensando al prossimo torneo, con la stessa emozione di chi compila un modulo delle tasse. Perché Sinner è così: un robot con l’anima, un campione che non ha bisogno di fare rumore per farsi sentire.  Jannik, per favore, la prossima volta che vinci, magari fai un sorriso un po’ più largo. Giusto per non farci pensare che sei segretamente austriaco.

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