Gattuso CT, ovvero “Rino, facci un miracolo!”

C’era una volta un’Italia che dominava il calcio mondiale con catenaccio, charme e un pizzico di furbizia. Quattro stelle scintillavano sul petto, campioni come Baggio, Totti e Maldini incantavano, e le piazze esplodevano di “Po-po-po-po” come in un karaoke di massa. Oggi? Quel Paese è un meme che inciampa su se stesso, un reality show dove ogni puntata finisce con un autogol e un arbitro preso a male parole. La Nazionale, reduce da un 3-0 incassato dalla Norvegia (sì, quella dei salmoni e di Haaland che ci guarda come fossimo un piatto di polenta rancida), ha deciso di giocarsi il tutto per tutto con Gennaro Gattuso come CT. È come affidare la direzione di un’orchestra filarmonica a un metallaro con una chitarra scordata: o fa un capolavoro per sbaglio, o ci ritroviamo tutti a cantare “Sweet Child O’ Mine” mentre il mondo ci ride dietro.


Il contesto: un calcio italiano che sembra un B-movie con budget zero
Facciamo un passo indietro, perché senza contesto questa storia sembra il delirio di un tifoso dopo una sbronza di sambuca. Il calcio italiano è un paziente in rianimazione, ma il medico ha dimenticato dove ha messo lo stetoscopio. Gli stadi? L’Artemio Franchi è un rudere che farebbe impallidire un archeologo, l’Olimpico di Roma un labirinto dove si perdono pure le zanzare. Le società? Bilanci in rosso che sembrano i conti di un casinò dopo una serata storta, con presidenti che parlano di “progetti pluriennali” e poi comprano il terzo cugino di un fenomeno sudamericano che non vede il campo manco in allenamento. La Serie A? Un luna park dove Kevin De Bruyne al Napoli (e chi se l’aspettava?) è il razzo spaziale in mezzo a giostre arrugginite. Per il resto, un campionato di pareggi mosci, onesti pedalatori e qualche lampo di genio che dura meno di un reel su Instagram.
Il tifo è un circo Barnum versione digitale. C’è chi rimpiange i tempi d’oro (“Con Zoff non sarebbe successo!”), chi giura che la VAR sia manovrata dalla Spectre, e chi accusa il sistema di perseguitare il proprio club (sì, anche tu, ultras del Catanzaro). In questo manicomio, la Nazionale è il colpo di grazia: fuori dagli ultimi due Mondiali, un Europeo 2021 che sembra un’allucinazione post-Covid, e un presente che sa di cantina umida. Luciano Spalletti, il poeta del calcio con la sua filosofia da intellettuale hipster, è stato mandato a zappare dopo il flop norvegese. Al suo posto, ecco Gennaro Gattuso, l’uomo che nel 2006 inseguiva gli avversari come un mastino e oggi promette di “tirare fuori gli attributi” dai giocatori. Gabriele Gravina, gran cerimoniere della FIGC, lo ha definito “un simbolo del calcio italiano”. Certo, come un motorino truccato è il simbolo della Ferrari: fa un gran baccano, ma non è proprio la stessa cosa.


Gattuso, il condottiero che sembra uscito da un film di Tarantino
Rino Gattuso non è un allenatore, è un fenomeno paranormale. È il tizio che entra in campo con lo sguardo di chi sta per affrontare un drago con un coltellino svizzero, e probabilmente vincerebbe. La sua carriera da tecnico è un ottovolante senza cinture di sicurezza: ha trascinato il Pisa in Serie B come un eroe omerico, ha vinto una Coppa Italia col Napoli, ma ha anche collezionato esoneri come fossero punti della patente. L’ultima tappa, all’Hajduk Spalato, si è chiusa con un terzo posto e un “grazie, ma anche no” che sa di arrivederci al bar. Eppure, Rino non si scompone. “La maglia azzurra è la mia seconda pelle”, ha dichiarato, e già lo vediamo mentre si tatua lo scudetto tricolore sul bicipite, accanto a un cuore con scritto “nonna”.
I romantici lo venerano: “Rino è l’unico che può svegliare ‘sti scappati di casa in ciabatte!”. I cinici, invece, scaldano i popcorn: “Gattuso CT? Tanto vale chiamare il mio idraulico, almeno lui sa dove mettere le mani”. La verità? Gattuso è un paradosso con le scarpette: non ha la raffinatezza di un Guardiola, ma ha il carisma di un generale che convince le truppe a caricare con le baionette contro i carri armati. E questa Nazionale, diciamocelo, non è proprio l’Invincibile Armata. Donnarumma è un muro umano tra i pali, Barella un pitbull che corre pure per il fisioterapista, Kean e Retegui due cecchini quando sono in giornata, ma poi? Calafiori e Frattesi sono promesse, ma il resto della rosa sembra un casting per un remake di “Sapore di mare” versione calcistica.


La missione: un Mondiale che sembra un’utopia distopica
L’obiettivo è limpido come un bicchiere d’acqua torbida: portare l’Italia al Mondiale 2026, dopo due edizioni saltate che hanno ferito l’orgoglio nazionale più di un cappuccino fatto con la moka bruciata. Il cammino? Una scalata dell’Everest in infradito, con la Norvegia che ci ha già dato una lezione e Haaland che sogna di farci altri tre gol davanti a un piatto di baccalà. Siamo terzi nel girone di qualificazione, con Estonia e Israele che ci guardano come fossimo il piatto meno invitante del menu. Gattuso, però, non è tipo da fare calcoli con la calcolatrice. Il suo piano? “Grinta, cuore, e correre fino a svenire”. Tradotto: un 4-4-2 che sembra uscito da un album di figurine anni ’90, palla lunga, e un rosario in tasca. I maligni lo accusano di giocare un calcio da “urla e pedala”, ma chi lo conosce sa che Rino è più furbo di quanto sembri. Al Milan e al Napoli ha costruito squadre toste, e se c’è uno che può trasformare un gruppo di onesti mestieranti in una banda di gladiatori, è lui. Certo, il rischio è che finisca tutto con un cartellino rosso per proteste e un’intervista post-partita che sembra un monologo di un comico di Zelig con la bronchite.
Il sogno: un’Italia che torna a brillare (o almeno a non farci cambiare canale)
Immaginiamo, per un secondo, che il miracolo accada. Gattuso entra negli spogliatoi con lo sguardo di un Clint Eastwood in “Per un pugno di dollari”, guarda i giocatori e li convince che ogni partita è una guerra santa. Donnarumma para anche le mosche, Chiesa dribbla pure il vento, Barella morde tutto quello che si muove, e magari spunta un nuovo Totò Schillaci (Pio Esposito per esempio), un ragazzo qualunque che segna gol a raffica e ci fa sognare come fossimo tornati al 1990. Sembra una favola, no? Poi ti svegli e ricordi che il calcio italiano è un disastro: stadi che crollano, procuratori che comandano più di un boss mafioso, e un sistema giovanile che produce più influencer con la cresta che campioni con la palla al piede. Costruire uno stadio nuovo? Più facile convincere un politico a rinunciare alla poltrona. Far crescere i giovani? Certo, ma prima dobbiamo insegnargli che il pallone non si calcia con un filtro di Instagram.
Eppure, in fondo al cuore, tifiamo tutti per Rino. Perché Gattuso è uno di noi: incazzato col mondo, passionale come un tenore all’Opera, con quel pizzico di follia che ti fa credere che l’impossibile sia solo un po’ complicato. Se fallirà, lo farà con la bava alla bocca, urlando contro il destino e probabilmente contro un quarto uomo con gli occhiali sbagliati. Se vincerà, preparate le piazze per il “Po-po-po-po”, una statua in suo onore a Roccella Ionica, e un film biografico con Massimo Boldi nei panni di Gravina. Nel frattempo, continueremo a litigare, a rimpiangere Totti, Del Piero o Roberto Baggio, e a sperare che il calcio italiano smetta di essere una barzelletta raccontata male. Forza Rino, facci sognare. O almeno, non farci spegnere la tv per la vergogna.

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