Stefano Pioli sta per tornare a Firenze. Sì, proprio lui, il “Normal One”, l’uomo che ha fatto della normalità un superpotere, il tecnico che risolve tutto con un sorriso e una lavagna tattica. Dopo un esilio dorato in Arabia Saudita, dove ha allenato l’Al-Nassr di Cristiano Ronaldo per uno stipendio che farebbe arrossire anche un sultano, Pioli è pronto a rimettere piede al Franchi, con il suo contratto da 12 milioni a stagione ancora caldo in tasca e un tatuaggio “DA13” sul braccio che grida Firenze più di un piatto di ribollita.
La carriera: un’Odissea tra salvezze e scudetti
Parma, 20 ottobre 1965. Nasce Stefano Pioli, un difensore roccioso che sembra destinato a una carriera di tutto rispetto, ma che gli infortuni trasformano in una via crucis tra ospedali e campi di Serie B. Gioca nella Juventus di Platini, vince una Coppa dei Campioni da comprimario, poi approda alla Fiorentina, dove resta sei anni, segna un gol (uno!) e sopravvive a un arresto cardio-respiratorio in campo nel 1994. Roba che farebbe impallidire anche il più stoico dei tifosi viola. Appese le scarpette al chiodo, Pioli decide che il calcio è la sua vita, ma dalla panchina.
La gavetta è di quelle che temprerebbero anche un monaco tibetano. Parte dalle giovanili del Bologna, vince un campionato Allievi, poi si tuffa in Serie B con la Salernitana, salvandola con la calma di chi ordina un caffè al bar. Modena, Parma, Grosseto, Piacenza, Sassuolo: un tour de force che sembra un pellegrinaggio calcistico, tra esoneri, richiami e salvezze conquistate con il coltello tra i denti. Nel 2011, il Palermo di Zamparini gli dà la chance in Serie A, ma dura meno di un gelato in spiaggia: esonerato prima ancora che il campionato inizi. Roba da Guinness dei primati.
Poi, il Bologna, la Lazio, l’Inter. Con i biancocelesti raggiunge un terzo posto e una finale di Coppa Italia, ma il sogno Champions svanisce contro il Bayer Leverkusen. All’Inter, parte come un razzo, ma si spegne come una candela al vento: esonerato dopo un filotto di sconfitte che farebbe impallidire anche il più ottimista dei tifosi nerazzurri. Nel 2017, arriva a Firenze, in una Fiorentina reduce da un ridimensionamento che sembra un harakiri societario. Qui, Pioli si trova a gestire il dramma più grande della sua carriera: la morte improvvisa di Davide Astori, il 4 marzo 2018. Diventa condottiero, padre, psicologo. La squadra chiude ottava, ma il tatuaggio in memoria di Astori sul suo braccio vale più di qualsiasi trofeo.
Nel 2019, il Milan lo chiama per spegnere l’incendio lasciato da Giampaolo. E qui, Pioli si trasforma. Da “normalizzatore” a vincente. Con un 4-2-3-1 che sembra scolpito nel marmo di Carrara, porta i rossoneri al secondo posto nel 2020-21 e, nel 2021-22, conquista lo Scudetto, il primo della sua carriera. La Panchina d’Oro è la ciliegina sulla torta. Ma il calcio è crudele: dopo un 2023-24 deludente, il Milan lo saluta, e Pioli vola in Arabia Saudita, all’Al-Nassr, dove guadagna più di un emiro ma non trova la pace. Terzo posto in campionato, semifinale di AFC Champions League, ma il richiamo di Firenze è troppo forte.
Lo stile di gioco: il pragmatico con il cuore da poeta
Pioli non è Klopp, non è Guardiola, e grazie al cielo non è Mourinho. Il suo calcio è come una lasagna emiliana: semplice, efficace, ma con quel sapore che ti scalda il cuore. Predilige il 4-2-3-1, un modulo che dà equilibrio ma non rinuncia alla sfrontatezza. Le sue squadre pressano alto, ma senza fanatismi; attaccano gli spazi, ma con giudizio; difendono con ordine, ma senza catenaccio. È il calcio del buonsenso, quello che non fa titoloni ma porta punti.
A Firenze, Pioli ha già dimostrato di saper plasmare squadre giovani e affamate. Nel 2017-18, con una rosa piena di esuberi e promesse, ha tirato fuori il massimo da Milenkovic, Biraghi e Simeone, sfiorando l’Europa nonostante il caos societario. Ora, con una Fiorentina che ha bisogno di ritrovare serenità dopo le turbolenze recenti, il suo pragmatismo potrebbe essere l’antidoto perfetto. Immaginate un centrocampo con nuovo regista, un attacco guidato da Kean (se resta) e un Marin Pongračić in difesa rigenerato, il tutto condito dalla calma zen di un allenatore che sembra sempre sapere cosa fare, anche quando il mondo crolla.
Le vittorie: poche, ma pesanti
Pioli non è un collezionista di trofei, ma quelli che ha vinto pesano come macigni. Lo Scudetto 2021-22 con il Milan è un capolavoro: un duello all’ultima giornata con l’Inter, una squadra giovane che corre come se non ci fosse un domani, e un San Siro che canta “Pioli is on fire” come se fosse un inno nazionale. La Panchina d’Oro 2023 è il riconoscimento di un’Italia calcistica che, finalmente, si è accorta di lui. E poi, quel Campionato Allievi con il Bologna: perché sì, anche quello conta, quando sei un allenatore che costruisce dal nulla.
La nuova Fiorentina: un cantiere viola con più buchi di un formaggio svizzero
La rosa attuale, è un po’ come un mercatino delle pulci: c’è roba di valore, qualche cianfrusaglia e un sacco di “ma chi è questo?”. Con Stefano Pioli, armato della sua calma da guru emiliano e del suo 4-2-3-1 più affidabile di un orologio svizzero, vediamo che razza di squadra potrebbe tirar fuori da questo caos viola. Ma prima, un rapido inventario della truppa. In porta, c’è David De Gea, il colpo da novanta che para rigori come se fossero mosche, ma che a 34 anni sembra più vicino a una pensione dorata che a un futuro da Spider-Man tra i pali. Al suo fianco, un giovane come Tommaso Martinelli, che sogna di rubargli il posto ma per ora si accontenta di lucidargli i guanti. In difesa, il totem Marin Pongračić comanda con la serenità di un monaco buddista, mentre Ranieri cerca di non far rimpiangere i tempi d’oro. Dodô? Beh, il brasiliano potrebbe fare le valigie, visto che il rinnovo del contratto è più lontano di un’oasi nel deserto, e Michael Kayode ha già salutato tutti per volare al Brentford, probabilmente stanco di aspettare.
A centrocampo, la situazione è un disastro glorioso. Danilo Cataldi, Yacine Adli, Nicolò Zaniolo e Andrea Colpani? Tutti gentilmente rispediti al mittente, perché Firenze non è un ente di beneficenza per prestiti fallimentari. Cataldi, che sembrava il metronomo perfetto, è tornato a vagare tra Roma e chissà dove; Adli e Colpani non hanno lasciato traccia, come fantasmi in una sitcom di serie B; e Zaniolo, beh, meglio lasciar perdere, visto che l’ultima sua prodezza è stata litigare con teenager invece di segnare gol. Restano Rolando Mandragora, che almeno porta un po’ di grinta emiliana. Amir Richardson e Cher Ndour offrono speranze, ma per ora sono più “promesse” che certezze, mentre Maat Caprini e Tommaso Rubino sembrano usciti da un casting per “giovani di belle speranze”.
In attacco, Moise Kean è il bomber designato, con 24 gol in stagione che gridano “non sono finito!”, ma deve ancora convincere i tifosi viola che non sia solo un fuoco di paglia. Lucas Beltrán è un’alternativa. Albert Guðmundsson? Il suo futuro è un rebus: potrebbe restare, o tornare al Genoa, lasciando Firenze con un pugno di mosche e un ricordo di dribbling mai concretizzati. Robin Gosens e Nicolò Fagioli, grazie alla qualificazione in Conference League, sono stati riscattati per una cifra che farebbe piangere il bilancio viola, ma almeno portano un po’ di solidità.
E ora, entra in scena Pioli, il “Normal One”, con la missione di trasformare questo minestrone di talenti, ex promesse e mezzi flop in una squadra degna di Firenze. Con il suo 4-2-3-1, che è più prevedibile di un finale di un film di Verdone, Pioli punterà su Pongračić come roccia difensiva, Gosens come trattore sulla fascia e Kean come ariete in area. Ma, diciamocelo, serve un miracolo. La Fiorentina ha bisogno di un terzino sinistro che non sia solo un nome su una figurina Panini, un regista che non scompaia nei momenti clou e un esterno d’attacco che ricordi i tempi in cui Chiesa faceva tremare le difese, non i tifosi viola. Senza Kayode, con Dodô in odor di partenza e Guðmundsson con un piede a Genova, il reparto offensivo rischia di essere più leggero di una piuma.
L’obiettivo? Un posto in Europa League, o almeno una Conference League che non finisca con un’altra medaglia d’argento e lacrime amare. Pioli, con quel suo aplomb da professore di educazione fisica, potrebbe dare ordine a questo caos, costruendo una squadra che non promette la luna ma almeno non fa figure da circo. I tifosi, che ancora sognano il Pioli del 2017-18, quello che li ha abbracciati nel dolore di Astori, sono pronti a dargli fiducia. Ma guai a sbagliare: a Firenze, il confine tra amore eterno e insulti in dialetto è più sottile di un foglio di carta velina. E se il Franchi non canta presto “Pioli is back, and Firenze is on fire”, il nostro eroe rischia di ritrovarsi a rimpiangere i petrodollari sauditi.
Il suo ritorno a Firenze sarebbe un messaggio: basta rivoluzioni, serve continuità. Pioli non è l’allenatore delle promesse mirabolanti, ma quello dei fatti. La sua Fiorentina non sarà un fuoco d’artificio, ma una macchina diesel che macina chilometri e risultati.
Stefano Pioli alla Fiorentina non è solo un’operazione di mercato, è una storia d’amore che riprende da dove si era interrotta. Con il suo calcio pragmatico, la sua calma da monaco buddista e quel tatuaggio che parla di Firenze più di mille parole, Pioli è l’uomo giusto per riportare serenità in una piazza che vive di passioni e delusioni. Non aspettatevi la Champions League domani, ma preparatevi a una squadra che lotterà, correrà e, soprattutto, non mollerà mai. Perché Pioli, il “Normal One”, ha sempre avuto un superpotere: trasformare l’ordinario in straordinario. E Firenze, con lui, potrebbe tornare a sognare.
