Piove, ovviamente, perché il cielo norvegese sa che quando l’Italia di Luciano Spalletti scende in campo, l’unica cosa appropriata è un diluvio biblico per lavare via l’imbarazzo. All’Ullevaal Stadion, I tifosi azzurri, probabilmente pentiti di non essere rimasti a casa a guardare Netflix, assistono a un 3-0 che è meno una partita di calcio e più un’esecuzione pubblica. La Norvegia, guidata da un Haaland che sembra un terminator mandato dal futuro per distruggere i nostri sogni, ci asfalta con la grazia di un bulldozer in un negozio di porcellane. E noi? Noi siamo il tizio che inciampa sul proprio ego, rotola giù per una scogliera e si chiede perché fa male.
Un primo tempo da manuale del “come rovinarsi la serata”
L’Italia inizia con l’entusiasmo di chi ha dimenticato il copione e improvvisa un monologo da recita scolastica. Per otto minuti scarsi, sembriamo quasi una squadra: un passaggio decente, un accenno di pressing, addirittura un’illusione di dignità. Poi, al 14’, Alessandro Bastoni, decide di trasformarsi in un cabarettista. Il suo lancio, degno di un ubriaco che tira freccette bendato, finisce dritto sui piedi di Sorloth. L’attaccante dell’Atletico Madrid, con la calma di chi sa che nessuno lo disturberà nemmeno con un fischietto, trafigge Donnarumma. Gigio tocca il pallone con la convinzione di chi prova a fermare un tsunami con un asciugamano. 1-0, e la nave azzurra già affonda come il Titanic, ma senza l’orchestra.
Non facciamo in tempo a raccogliere i cocci che al 32’ arriva Antonio Nusa, un diciannovenne che sembra aver imparato a dribblare guardando video di Messi su YouTube a velocità doppia. Di Lorenzo e Rovella, in un’imitazione perfetta di due clown che si contendono una torta, si scontrano e crollano come birilli in un bowling vichingo. Nusa, con un destro che farebbe invidia a un cecchino della Cia, infila il 2-0 sotto la traversa. Spalletti, in panchina, ha l’espressione di chi ha appena scoperto che il suo volo è stato cancellato e deve passare la notte in aeroporto.
Ma il gran finale del primo tempo è ancora più grottesco. Al 44’, Odegaard, il Da Vinci dei fiordi, dipinge un assist che sembra uscito da un manuale di geometria euclidea. Haaland, che a questo punto è più un’arma di distruzione di massa che un calciatore, salta Donnarumma come se fosse un paletto da giardino e deposita il 3-0. Sipario. L’Italia non ha tirato una volta in porta, non ha avuto un’idea, non ha nemmeno finto di provarci. I norvegesi, invece, sembrano giocare a “chi ci umilia di più”, e vincono a mani basse.
Spalletti, il profeta dell’ostinazione cieca
A fine partita, Spalletti si presenta ai microfoni con l’aria di chi ha appena perso al Monopoli ma giura che tanto non gli piaceva vincere. “Il primo gol era evitabile,” sentenzia, con la profondità di un post su Instagram di un influencer di quart’ordine. “Abbiamo sofferto le loro individualità.” Traduzione: loro hanno giocatori che sanno dove sta la palla, noi sembriamo un gruppo di turisti persi in un centro commerciale. Ma il vero capolavoro arriva quando il nostro guru toscano, con la testardaggine di chi insiste a usare Windows Vista nel 2025, proclama: “Vado avanti con questo gruppo.” Applausi scroscianti. Non si capisce se per la sfacciataggine o per l’audacia di chi guida un trattore senza freni urlando “tranquilli, ci penso io”.
E che gruppo, signori! Bastoni, che dopo la figuraccia in Champions col Psg decide di regalare alla Norvegia un assist che nemmeno un comico di Zelig farebbe meglio. Tonali, che perde palloni con la nonchalance di chi lascia cadere il gelato e dice “vabbè, tanto era sciolto”. Retegui, così trasparente che qualcuno giura sia stato rapito dagli alieni a metà partita e sostituito con un manichino. Di Lorenzo, capitano di uno scudetto napoletano ma qui trasformato in un passante spaesato che cerca la fermata del tram. E Rovella? Rimproverato da Spalletti come un bambino che ha dimenticato la merenda, ma con meno scuse plausibili. L’unico che si salva, per modo di dire, è Coppola, un esordiente che prova a fermare Haaland con la determinazione di chi affronta un drago con una fionda. Spoiler: il drago vince.
Un disastro annunciato? No, un disastro prenotato
Questa débâcle era più prevedibile di un finale di telenovela. La difesa azzurra? Un puzzle fatto da un bambino di tre anni con le mani sporche di marmellata. Acerbi, convocato per marcare Haaland, ha risposto con un “no, grazie” degno di un dramma di Pirandello: “Questioni di rispetto,” ha detto, come se Spalletti gli avesse rubato l’ultima fetta di pizza. Il tecnico, con l’eleganza di un toro infuriato, ha ribattuto: “Mi spiegherà dove gli ho mancato di rispetto.” Nel frattempo, Calafiori è infortunato, Gatti acciaccato, Buongiorno fuori gioco. Risultato? Una retroguardia con Coppola, che sembra un liceale mandato a fare un provino per “The Walking Dead”, e Di Lorenzo, che ha dimenticato cosa significa “marcare”. In attacco? Retegui e Raspadori, che insieme hanno creato meno pericoli di un criceto addormentato in una ruota ferma.
La Norvegia, invece, è un’orchestra sinfonica diretta da Solbakken. Haaland segna come se fosse un videogioco in modalità facile, Nusa incanta come un prestigiatore al circo, Sorloth punisce come un boia medievale, e Odegaard dipinge traiettorie che farebbero piangere d’invidia Michelangelo. E noi? Siamo la comparsa che inciampa sul ciak e fa crollare il set. I tifosi, quei martiri che hanno sfidato il diluvio di Oslo, iniziano a contestare al 60’. “Spalletti vattene,” urlano, e chi può biasimarli? L’Italia non tira in porta fino al 92’, quando Lucca, entrato dalla panchina, decide che almeno un tiro va fatto, se non altro per non passare alla storia come la squadra che ha dimenticato dov’è la porta avversaria.
Playoff, il nostro karma crudele
Con la Norvegia a 9 punti e noi a zero, la qualificazione diretta al Mondiale 2026 è più lontana di un unicorno in un parcheggio di periferia. La differenza reti (+10 per loro, -3 per noi) è un macigno che nemmeno Thor potrebbe sollevare. Ci aspettano i playoff, quel girone infernale che ci ha già spezzato il cuore due volte. Lunedì c’è la Moldavia, un’occasione per segnare qualche gol e fingere che sappiamo ancora giocare. Ma, diciamocelo, battere la Moldavia è come vantarsi di aver vinto a tris contro un bambino di cinque anni. Non proprio da standing ovation.
Spalletti, nel frattempo, annuncia un incontro con Gravina, il presidente della Figc, con l’aria di chi sta per confessare di aver perso le chiavi del pianeta. “Parleremo delle mie intenzioni,” dice, come se stesse per rivelare la trama di un thriller. Sui social, i tifosi invocano Claudio Ranieri, mentre Mancini e Pioli vengono scartati come avanzi di Natale. Ma il problema non è solo Spalletti. È una Nazionale che sembra aver venduto l’anima al diavolo e si è fatta pagare in buoni pasto scaduti. È una squadra che, come direbbe qualcuno, “si arrende con la grazia di un materasso bucato, si piega con la dignità di un ombrello al contrario e si perde con l’entusiasmo di chi va a fare la fila alle poste”.
Il calcio come farsa in tre atti
E così, mentre Oslo ci congeda con un’ultima raffica di pioggia che sembra un applauso beffardo, l’Italia calcistica si ritrova a raccogliere i cocci di un orgoglio ridotto a brandelli più fini di un foglio A4 passato nel tritacarte. Questa disfatta non è solo una batosta, è un masterclass di autolesionismo, un promemoria che non basta avere un progetto se poi lo esegui con la grazia di un elefante che prova a ballare il tango su un monociclo. Spalletti, con il suo “vado avanti” pronunciato con la convinzione di un venditore porta a porta che cerca di rifilarti un aspirapolvere rotto, sembra il capitano di una barchetta di carta che naviga dritta verso una cascata, canticchiando “tranquilli, è solo un po’ di umidità”. E noi, ingenui spettatori di questa tragicommedia, restiamo a guardare, armati solo di un sarcasmo così affilato da tagliare il burro con un’occhiata. Perché, “il calcio è una cosa serissima, ma quando ti fai asfaltare 3-0 dalla Norvegia, l’unica opzione è ridere fino alle lacrime, ordinare una pizza formato famiglia e pregare che la Moldavia non ci faccia sembrare un meme vivente.”
