C’è un momento, nella vita di ogni tifoso, in cui ti siedi sugli spalti di San Siro – o sul divano, con una birra tiepida e un gatto che ti fissa come a dire “perché mi fai questo?” – e ti aspetti che il Derby della Madonnina ti regali un’epifania calcistica. Ti aspetti gol, drammi, urla, magari pure un’espulsione da far discutere per settimane al bar. E invece, eccoci qua, a commentare una semifinale d’andata di Coppa Italia che sembra scritta da un burocrate svizzero con la passione per i pareggi: 1-1, un risultato che sa di compromesso tra due colleghi che litigano per chi deve spegnere la luce in ufficio. Partiamo dal contesto. Il Milan di Sérgio Conceição si presenta con l’aura di chi ha vinto la Supercoppa Italiana contro questi stessi cugini nerazzurri, un 3-2 che aveva fatto gridare al miracolo i tifosi rossoneri. “Siamo tornati nell’Olimpo!” sbraitavano, mentre si scattavano selfie con la sciarpa al collo. Peccato che in campionato siano ancora lì, a sguazzare in una palude di mediocrità al nono posto, con un attacco che segna meno di un impiegato delle poste in pausa pranzo. Conceição, con quel suo piglio da generale lusitano che sembra uscito da un film di guerra, continua a predicare riscatto e grinta, ma finora ha lucidato più promesse che trofei.
Dall’altra parte, l’Inter di Simone Inzaghi, il guru della panchina, l’uomo che emana una calma mistica mentre ti rifila un contropiede letale. I nerazzurri dominano la Serie A come un professore che corregge compiti con la penna rossa, con una difesa che concede meno di un usciere a un evento esclusivo e un attacco che, quando vuole, ti fa sembrare il tuo portiere un turista spaesato. Ventiquattro clean sheet stagionali, numeri da far invidia a un caveau bancario. Eppure, anche loro, in questo derby, sono riusciti a scendere dal piedistallo per ricordarci che pure i campioni possono annoiare.
Primo tempo: 45 minuti di nulla.
Fischio d’inizio, e subito si capisce che non sarà una serata da incorniciare. Il Milan schiera Tammy Abraham là davanti, un colosso inglese che si muove con la leggiadria di un frigorifero su un parquet scivoloso. L’Inter risponde con Marcus “Tikus” Thuram, che alterna lampi di classe a giravolte inutili degne di un pavone che si pavoneggia davanti a uno specchio. I primi 45 minuti sono un’ode alla cautela, un balletto di passaggi laterali che farebbe sbadigliare anche un caffeinomane incallito. Rafael Leão, il gioiellino rossonero, ogni tanto accende una scintilla, ma poi si spegne subito, forse troppo occupato a scegliere la playlist per il riscaldamento.
Secondo tempo: succede l’imprevedibile. Tammy Abraham, proprio lui, il centravanti che sembrava destinato a fare da soprammobile di lusso nella bacheca di Casa Milan, si ritrova un pallone vagante in area – probabilmente perché la difesa interista stava ancora discutendo su chi dovesse marcarlo – e lo spedisce in rete con la grazia di un taglialegna che abbatte un pino. 1-0 Milan. San Siro trema, i tifosi rossoneri si abbracciano come se avessero appena scoperto l’acqua calda, e i nerazzurri si guardano con l’aria di chi ha dimenticato di pagare il bollo dell’auto. “È la partita della svolta!” gridano i milanisti. Calma, amici, non fatevi illusioni: il meglio (o il peggio) deve ancora venire.
Çalhanoğlu, il traditore che non perdona
Si riparte, e l’Inter decide che forse è il caso di ricordarsi di essere una squadra da scudetto. Al 67’, Hakan Çalhanoğlu, il grande voltagabbana, l’uomo che ha cambiato sponda del Naviglio con la nonchalance di chi passa dal tè al caffè senza battere ciglio, tira fuori un destro al fulmicotone che si infila all’angolino. 1-1. Mike Maignan, il portiere rossonero che di solito para anche i sospiri, stavolta può solo guardare e maledire il giorno in cui ha deciso di fare il calciatore. San Siro si zittisce, i tifosi milanisti ricominciano con la solita cantilena: “Sempre quel maledetto turco!”. Çalhanoğlu, ovviamente, esulta ma con moderazione, perché è un signore, ma quel sorrisetto sornione che gli scappa è più tagliente di una battuta di Zelig. È il suo passatempo preferito: punire i suoi ex e guardarli mentre si contorcono come in un melodramma di serie B.
Da lì in poi, la partita diventa una specie di gara a chi annoia di più. L’Inter ci prova e il Milan risponde ma il risultato non cambia. Le occasioni sono rare come un parcheggio libero a Milano, Yann Sommer e Maignan potrebbero tranquillamente mettersi a chiacchierare di filosofia in area, e il pubblico inizia a chiedersi se non fosse meglio passare la serata a fare zapping tra i canali della tv.
Gli ultimi minuti sono un concentrato di nulla assoluto. Le panchine si animano, Conceição urla come un capotreno in ritardo, Inzaghi risponde con quel suo aplomb da monaco buddista che sembra dire “calma, tanto al ritorno vi sistemo io”. L’Inter ci prova nel finale, ma il Milan si difende con la disperazione di chi sa che il ritorno sarà una salita più ripida del Mortirolo.
Finisce 1-1, e tutti a casa con la sensazione di aver assistito a una riunione condominiale senza ordine del giorno. Il tabellino è chiaro: Abraham al 47’, Çalhanoğlu al 67’, e poi un lungo elenco di “niente da segnalare” che potrebbe riempire un manuale di istruzioni per l’apatia. Il Milan può consolarsi pensando che almeno non ha perso, ma è come dire che sei felice di aver preso un’insufficienza lieve invece di un disastro totale. L’Inter torna a casa con la serenità di chi sa che al ritorno avrà il pubblico dalla sua e una squadra che, ammettiamolo, sembra più solida di un tavolo dell’Ikea montato bene (rarità assoluta).
Questo 1-1 è solo l’ennesima tacca su una rivalità che stavolta ha avuto il sapore di un panino del giorno prima: commestibile, ma non proprio un’esperienza da gourmet. Il Milan ha tirato 13 volte (4 nello specchio), l’Inter 18 (8 in porta), ma la vera statistica da Guinness è il numero di volte che i tifosi hanno controllato il telefono per vedere quanto mancava alla fine.
I protagonisti: chi brilla e chi si spegne
Tammy Abraham si merita un applauso ironico: segnare in un derby non è da tutti, soprattutto se sembri sempre sul punto di inciampare nei lacci delle scarpe. Çalhanoğlu, invece, è il villain perfetto, il Joker di questa storia, con quel destro che punisce i suoi ex come un promemoria scritto in rosso. Leão e Thuram, i due fenomeni annunciati, si sono limitati a fare comparsate, come quei parenti che arrivano al pranzo di Natale ma se ne vanno prima del dolce. E poi ci sono i tecnici: Conceição, il predicatore di un riscatto che sembra sempre rinviato al prossimo episodio, e Inzaghi, il maestro del “tanto vinco dopo” che sorride come se sapesse già come finisce il film.
Epilogo: al ritorno, fateci un favore
E allora, che dire di questo derby d’andata? È stato come ordinare una pizza quattro stagioni e ritrovarsi con una margherita scondita: ti aspetti un’esplosione di sapori e ti arriva un “meh” con contorno di delusione. Il ritorno ci aspetta, e speriamo che almeno lì succeda qualcosa, perché se anche quello finisce con un pareggio insipido, allora sì che sarà il caso di spegnere tutto e dedicarsi al giardinaggio.
E noi poveri cristi, restiamo qui, a ridere di un calcio che ci illude e ci anestetizza nello stesso pacchetto da discount. E se questo è il Derby della Madonnina, che la Madonnina ci lanci un salvagente, perché stiamo affogando nella noia. Al ritorno, per carità, giocatevela, fateci urlare, o almeno fingete di provarci. Basta con ‘sti pareggi da quattro soldi: il prossimo che osa dire “è solo l’andata” lo spediamo a fare la fila per il merchandising, che almeno lì c’è più azione.
